Insularità e aiuti di Stato: non nascondiamoci dietro un dito

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“Sardegna più vicina all’Europa”, “voto storico”, “via agli aiuti di Stato“. La risoluzione Omarjee, approvata ieri a larghissima maggioranza dal parlamento di Strasburgo, ha suscitato reazioni entusiastiche in tutta l’Isola. In buona sostanza, l’Europa riconoscerà ufficialmente la condizione d’insularità come svantaggio strutturale permanente, e, pertanto, si attiverà affinché venga colmato quel gap che – secondo le stime dell’Istituto “Bruno Leoni” – costa ai sardi circa 5.700 euro pro capite all’anno. In totale si tratta di circa 9 miliardi.

Sarà davvero una svolta storica? Solo il tempo potrà dirlo. Già, perché tra il riconoscimento dello svantaggio strutturale e l’erogazione degli aiuti c’è di mezzo (stavolta solo metaforicamente) il mare.

A prescindere da tutto, l’errore più grave sarebbe quello di considerare le compensazioni come la panacea di tutti i mali, oppure la bacchetta magica che, di punto in bianco, risolve tutti i problemi dell’Isola.

Guardiamoci allo specchio e siamo onesti, una volta tanto: il clamoroso gap infrastrutturale che attanaglia la Sardegna è dettato solo in parte dalla condizione insulare. Per carità, il fatto di essere circondati dal mare, e dunque limitati negli spostamenti, non aiuta certo lo sviluppo della nostra economia, pesantemente gravata da costi aggiuntivi dettati dai trasporti. Si tratta di un argomento inconfutabile. Tuttavia, appare evidente che la vera zavorra allo sviluppo dell’Isola non risiede tanto nella sua posizione geografica, quanto nella sua condizione di sostanziale dipendenza e subalternità.

Se avessimo saputo lavorare in maniera efficace sulla continuità territoriale, magari istituendo finalmente una compagnia aerea sarda, soffriremmo così tanto il fatto di vivere in un’isola? E se, negli anni, ci fossimo strutturati per poter essere più autonomi sotto il profilo energetico, ora saremmo costretti ad andare a Roma o a Strasburgo a reclamare nuove forme di assistenzialismo?

Le compensazioni, in altre parole, sembrano più che altro utili a mascherare problemi ben più grandi, ovvero la gigantesche difficoltà che storicamente incontriamo nell’amministrare il nostro territorio.

Oggi, per l’ennesima volta, stiamo infatti rinunciando a essere protagonisti del nostro sviluppo, intrecciando ulteriori rapporti di dipendenza basati su narrazioni tendenzialmente vittimistiche e deresponsabilizzanti. Ci stiamo allontanando sempre più dai concetti di autonomia e indipendenza scegliendo di vivere come periferia disagiata di altri centri.

Ci sono regioni europee per cui la condizione d’insularità non è una condanna perenne alla povertà, così come l’avvertiamo noi. Anzi, viene vissuta in maniera attiva, da protagonisti. Ed è a questi territori che dovremmo guardare per porre fine alla nostra condizione di subalternità.

Nel frattempo non ci resta che attendere e vedere come verrà tradotta in termini concreti la risoluzione Omarjee: entro certi termini potrebbe anche rivelarsi uno strumento utile. A patto che non la si consideri la panacea di tutti i mali: sarebbe un errore madornale.

Roberto Rubiu


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